ORGOGLIO GORIZIANO, QUATTRO INCONTRI IN SALA DORA BASSI

INTERVISTA AD ALTIERI - DI MARGHERITA REGUITTI

Sergio Altieri: un uomo, un artista.

La mostra “Una Gorizia lontana”. Sergio Altieri, tempere su tela 2010-2015 è frutto di reminiscenze. Da dove iniziano questi ricordi?

Dalle mie radici: mia madre era goriziana e mia nonna abitava in uno dei luoghi più caratteristici della città, piazza Niccolò Tommaseo in Plazuta (denominazione friulana di Piazzutta, antico borgo della città ndr). Ho frequentato, senza troppa convinzione il ginnasio; la mia formazione è proseguita soltanto fino alla prima liceo. I miei genitori furono anche troppo buoni e comprensivi con me e mi lasciarono fare. Ma fu sui banchi di scuola che incontrai dei ragazzi destinati a diventare miei amici, fra i più cari di tutta la vita.

Su cosa poggiava il vostro legame di amicizia?

Ci univa la passione per l'arte, il teatro, il cinema e la letteratura; l’ingenua illusione di provare a cambiare il mondo, dopo il dramma della guerra. Negli anni ’50 era nato il Piccolo Teatro Città di Gorizia, mentre Gradisca d’Isonzo ospitava, in Sala Bergamas, mostre di respiro sovraregionale, alle quali parteciparono anche alcuni fra i più importanti artisti veneziani.

Sembra impossibile oggi, ma ottenni da Emilio Vedova un grande quadro da esporre: semplicemente presentandomi in studio. Tramite l'amico Albino Lucatello riuscimmo ad ottenere in prestito opere di Giuseppe Santomaso, Beppi Longo, Renato Borsato, Virgilio Guidi e Pio Semeghini. Con una telefonata di Giuseppe Zigaina, un medico udinese ci concesse per un' esposizione tre ceramiche di Pablo Picasso. L’incauto collezionista non sapeva che le avremmo portate a Gradisca sottobraccio in lambretta, avvolte in una vecchia coperta.

Era la prima volta che opere di Picasso venivano esposte nell’isontino. Fu un evento, anche perché non si era a conoscenza di altri che possedessero in regione opere così importanti. Forse ce n’erano, custodite in casseforti, chissà?

Quanto durò questo progetto culturale?

Fu un’attività espositiva e di incontri che si svolse dal 1951 al 1954; il motore di questo progetto erano l’energia e l’entusiasmo dei nostri 20 anni. Ovvio che tutti lavorassero gratuitamente e i premi fossero in natura, offerti dai contadini e dagli operai isontini, sull’esempio del famoso premio nazionale “Suzzara”. 

 

Fra gli ospiti illustri anche Pier Paolo Pasolini, in che occasione?

Intervenne proprio all’inaugurazione di una delle ultime mostre, che prevedeva anche una conversazione centrata sulla poesia in friulano. A quel tempo, nonostante si fosse già trasferito a Roma, era solo un poeta che scriveva nella parlata di Casarsa.

Nel frattempo però, nello studio di Gigi Castellan a Cormons, avevo cominciato a dipingere. Qui conobbi artisti goriziani, udinesi e triestini, ma anche critici d’arte e galleristi.

Che rapporto ebbe con Giuseppe Zigaina e Cesare Mocchiutti?

Entrambi mi sono stati di incoraggiamento e sostegno, sia nell'attività di pittore, sia in momenti difficili della mia vita. Furono amicizie molto intense. Zigaina mi volle come aiuto alla Triennale del 1954 a Milano. Con Mocchiutti siamo stati amici fino all’ultimo. Furono rapporti umani e di lavoro.

Ritornando a questa mostra, come ha scelto i soggetti che raccontano il suo rapporto con la città?

Mi sono fatto guidare dalla memoria e dalle mie emozioni. Ho dipinto la facciata di Palazzo Attems Petzenstein in quanto allora, come oggi, rappresenta il tempio dell'arte, la sede prestigiosa nella quale ogni pittore goriziano desidera vedere esposti i suoi lavori. Ma anche il suo interno, raffigurando una coppia di studenti che, marinata la scuola, sostano davanti a una celebre tela di Vittorio Bolaffio.

Come mai ha scelto un quadro del pittore goriziano Bolaffio, famoso per il ciclo dedicato al porto di Trieste?

È uno dei miei pittori preferiti; i suoi marinai e scaricatori di porto sembrano personaggi di Joseph Conrad. Il suo capitano, figura drammatica e maledetta, al tramonto sale a bordo della nave. Pare in procinto di partire per Singapore, anche se farà rotta per Capodistria. I suoi tramonti e il suo mare sono così veri!

La musica è un soggetto della sua produzione pittorica, in questa mostra appare in varie opere.

Ho dipinto il ricordo di un concerto alla Sala Petrarca. Poteva essere il 1952 e il quartetto Poltronieri, allora molto famoso e apprezzato, si esibiva in città proponendo anche musica di Béla Bartók. Erano composizioni contemporanee, lontane dalle tonalità e melodie classiche; forse una novità per Gorizia.

Anche la giovane violinista in mostra è un frammento emozionale del mio passato. Poteva essere il 1947, la bella e brava musicista Pina Carmirelli eseguì in castello il celebre concerto di Mendelssohn. Ricordo in modo chiaro la sua interpretazione e il bellissimo vestito verde!

In alcuni quadri lei racconta feste ed eventi sportivi.

Il tema della festa è uno dei miei soggetti. In questo caso ho voluto proporre una mia immagine della fiera di Sant'Andrea, con tutta la ricchezza di colori, di volti di persone che si incontrano con il piacere di stare assieme.

Ma anche l'energia di un partita di calcio, nell’eccitazione della Pro Gorizia che stava per essere promossa dalla serie “C” alla serie “B”; era il 1943. L’8 settembre fece svanire il sogno.

Dopo la recente serie dedicata ai ciclisti, ho provato a dipingere un immaginario stadio di via Baiamonti, con sullo sfondo il castello e l'orizzonte definito dalle colline a nord.

In mostra è presente anche un lavoro che ricorda una scenografia teatrale?

Proprio così, non ho fatto in tempo a ridipingere la scenografia che negli anni ’50 avevo preparato per “Il Parlamento” del Ruzante, messo in scena alla Ginnastica goriziana. Il quadro in mostra è dunque un modesto ricordo e una rielaborazione dell’originale.

Ricordo quel periodo per la vivacità culturale della città. Il centro e luogo di ritrovo era il Caffè Teatro di Edy De Nicolo, dove ci davamo appuntamento. Si discuteva d'arte, politica e si frequentava il Cineclub.

Una sezione significativa è dedicata ai paesaggi.

Sono inediti realizzati negli ultimi cinque anni. Alludono alle colline che ho sempre visto e sono i soggetti prediletti della mia pittura. Accanto a questi la serie “Nel parco di una villa veneta” nata, in realtà, dall’osservazione dell’area verde che circonda il Museo archeologico nazionale di Aquileia o da un angolo del giardino curato da mia moglie Livia. Il parco di Villa Coronini di Gorizia, con tre bambinetti che giocano, potrebbe finalmente essere uno dei miei prossimi soggetti.

Che metodo adotta nella realizzazione dei quadri?

Più o meno dipingo sempre le stesse cose che conoscono tutti. Cancello e rifaccio, lavoro sui dettagli, sovrapponendo strati di colore. Ma sempre nei paesaggi la figura umana è la fonte di luce che alleggerisce il peso della materia.

Quale è il punto di continuità fra le prime opere del 1949 e queste ultime?

Direi la figura umana. È presente nei miei primi dipinti, sia di carattere espressionista, sia nella fase neorealista, quando sentivo la necessità di un racconto più chiaro e preciso. Gli ultimi rivelano una contraddizione evidente e mai risolta, tra una pittura narrativa e una “lirica”.

Cosa significa la pittura nella sua vita?

Un lavoro che mi ha permesso di far vivere e crescere la mia famiglia, provvedere alle necessità di mia moglie e dei mie tre figli; questo è un fatto per me importante.

Non sono sufficientemente informato sul dibattito in atto nell’arte contemporanea, anche perché, a 85 anni, mi basta aprire lo studio ogni mattina e mettermi a lavorare. Tra l’altro questo è un dovere verso chi ha apprezzato negli anni, concretamente, il mio lavoro.

Lei è noto per la sua riservatezza, da cosa deriva?

Le rispondo con una battuta: ho passato metà della mia vita a farmi conoscere, l'altra metà a nascondermi, anche se, per una serie di circostanze, non ci riesco.

Margherita Reguitti

 

 

 

 

 

 

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